Danni da sangue infetto: evoluzione della giurisprudenza

I principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di danni da sangue infetto sono, ormai, abbastanza consolidati, vi sono però ancora alcuni aspetti controversi o, quanto meno, in relazione ai quali i giudici non hanno ad oggi raggiunto una interpretazione condivisa.

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Come è noto, gli strumenti di tutela in favore di coloro che sono stati contagiati sono sostanzialmente due.

Il primo è l’indennizzo disciplinato dalla legge 210/1992, in base alla quale è possibile ottenere un assegno bimestrale vitalizio.

Il secondo è il risarcimento del danno, danno che può essere chiesto al Ministero della salute, in ragione del mancato controllo sul sangue o sugli emoderivati somministrati e responsabili della contrazione della malattia, all’ospedale dove è avvenuto il contagio o ad entrambe le strutture precedentemente menzionate.

In merito all’indennizzo, è ormai pacifico che la relativa domanda deve essere presentata entro tre anni dalla conoscenza del danno, elemento che, peraltro, può considerarsi esistente solo quando l’interessato è consapevole di essere affetto da una patologia, contratta a causa della somministrazione di sangue infetto, che sia ascrivibile, anche per analogia, ad una delle infermità previste dalla tabella  B annessa al testo unico approvato con D.P.R. 23 dicembre 1978 n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981 n. 834 (in questo senso le pronunce della Suprema Corte n. 10116/2016 e n. 10117/2016).

Ci sembra anche opportuno ricordare che l’indennizzo può essere chiesto anche nel caso di trasfusioni eseguite all’estero, a condizione però che il trattamento sia stato preventivamente autorizzato dal Servizio Sanitario Nazionale (così la pronuncia n. 11018/2016 della sezione lavoro della Corte di Cassazione).

In relazione al risarcimento del danno, occorre innanzi tutto ricordare il diverso regime della prescrizione, a seconda che i danni domandati siano quelli del danneggiato ovvero quelli dei suoi eredi, a condizione che quest’ultimo sia deceduto a causa della patologia.

Il regime cambia anche a seconda del soggetto nei confronti del quale viene promossa l’azione giudiziaria.

Qualora la causa sia promossa nei confronti del Ministero della salute, i diritti del danneggiato si prescrivono in cinque anni, a decorrere, al massimo, dal giorno in cui costui ha presentato la domanda di indennizzo ai sensi della legge 210/1992, i secondi si prescrivono invece in dieci anni, a decorrere dal giorno del decesso del contagiato (si veda, in merito, la pronuncia n. 5964/2016 della Corte di Cassazione).

Qualora la causa venga promossa contro la struttura ospedaliera il termine di prescrizione è, invece, sempre di dieci anni, a decorrere dalle date sopra indicate.

Nel corso del 2017, inoltre, la Corte di Cassazione sembra essersi definitivamente orientata nel riconoscere che “già a partire dalla data di conoscenza del rischio del contagio dell’epatite B, comunque risalente ad epoca precedente al 1978 (anno in cui questo virus fu definitivamente identificato in sede scientifica), sussiste la responsabilità del Ministero della salute, che era tenuto a vigilare sulla sicurezza del sangue e ad adottare le misure necessarie per evitare i rischi per la salute umana, anche per il contagio degli altri due virus” e quindi anche per i contagi da HCV (si veda ad esempio la pronuncia n. 22832/2017).

Con la pronuncia n. 22061/2017, inoltre, la Suprema Corte ha riconosciuto che l’emanazione della legge n. 107 del 1990 e della normativa secondaria di attuazione non ha “determinato il venir meno, in capo all’amministrazione statale, del generale compito di controllo, direttiva e vigilanza” sul sangue, con la conseguenza che il Ministero della salute può essere chiamato a rispondere anche per contagi verificatisi successivamente all’entrata in vigore della normativa sopra indicata.

Va ricordato, infine, che per giurisprudenza ormai consolidata chi ottiene un risarcimento del danno deve scomputare da questa somma quanto abbia precedentemente ottenuto a titolo di indennizzo ai sensi della legge 210/1992.

L’esito della causa di risarcimento non ha, invece, alcuna conseguenza sull’indennizzo, che continuerà ad essere liquidato anche qualora il giudizio risarcitorio venga rigettato, persino per assenza del nesso causale tra le trasfusioni e la malattia.

In relazione allo scomputo dell’indennizzo, peraltro, vi sono ancora dei contrasti giurisprudenziali in relazione ad alcuni profili applicativi dell’istituto, quali ad esempio la modalità con la quale l’Amministrazione deve provare l’avvenuta percezione del beneficio, ovvero la possibilità o meno di scomputare dal risarcimento anche i ratei di indennizzo percepiti successivamente al deposito della sentenza che liquida il danno, su questi aspetti dovrebbero pronunciarsi, nel prossimo futuro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

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